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Dopo aver parlato di smart working, lavoro agile e nuove modalità di lavoro, oggi l'espressione al centro del dibattito sull'organizzazione del lavoro nelle aziende di ogni tipo e dimensione è "lavoro ibrido". Ma di che cosa si tratta?

Lo smart working è morto, viva lo smart working (a proposito del lavoro ibrido)

Negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetere, da più parti e con una significativa frequenza, una domanda che continua a suonare attuale: se è vero che l’emergenza pandemica ha “bruciato” e svuotato di significato l’espressione “smart working” (costretta a definire il mero lavoro da remoto o tele-lavoro), che ne sarà delle pratiche di responsabilizzazione, rinnovato lavoro per obiettivi e libertà di scelta che si solevano descrivere con l’aggettivo “smart”? La risposta è semplice: il caro, vecchio smart working è ancora qui, pronto a essere abbracciato dalle imprese che ancora credono nel suo valore. Ma adesso si chiama “lavoro ibrido”.

Che cosa si intende parlando di lavoro ibrido?

Dopo un lungo periodo in cui il lavoro da casa ha per molti e a lungo sostituito quello in azienda – con i picchi del lockdown e dei periodi delle “ondate” pandemiche – ora, nella prospettiva di condizioni di contesto più favorevoli, le imprese non desiderano imporre un ritorno in ufficio, bensì promuovere una distribuzione equa – e favorevole al work-life balance – di tempi e spazi di lavoro. L’ibrido in questione è dunque anzitutto un riferimento di tipo spazio-temporale, evocato da chi intende favorire una proficua mescolanza di attività in presenza (presso la sede aziendale) e a distanza (altrove), con in mente anche il recupero del piacere del lavorare insieme e della convivialità. Le imprese diventano un luogo in cui poter svolgere con rinnovato spirito partecipativo il proprio lavoro in presenza, collaborando armonicamente – in modo ibrido – con colleghi che lavorano a distanza.

Anche agli osservatori meno attenti risulterà chiaro come in questo approccio non ci sia nulla di sostanzialmente nuovo. Il “vero” smart working (cioè quello precedente al 2020) ha sempre previsto queste dinamiche e non è mai stato pensato per basarsi sul solo lavoro a distanza. Smart working significa libera scelta di tempi e spazi di lavoro, sorretta da un principio di responsabilizzazione che suona particolarmente bene in inglese: “work is not a place; it’s what you do”. Lo smart working era quindi, fra le altre cose, “ibrido” ben prima che la terminologia dell’ibrido emergesse. Ma va bene così: se una nuova etichetta può aiutare a superare la confusione (terminologica e pratica) indotta dalla pandemia e a rilanciare pratiche lavorative virtuose, ben venga.

Che cosa è importante non scordare

L’analisi al microscopio dei termini in gioco può ancora offrire qualche spunto di riflessione. Laddove l’espressione “smart working” aveva il pregio di abbracciare un ampio ventaglio di temi e di non limitare la questione alla sola collocazione fisica dei lavoratori, l’aggettivo “ibrido” rischia di suonare molto più riduttivo e vincolante. Limitare il campo alla sola questione spaziale e temporale è rischioso, soprattutto considerato che la posta in gioco è elevata.

Il rinnovamento delle pratiche lavorative incontra oggi altri temi aperti come quelli della trasformazione digitale, della sostenibilità e delle “grandi dimissioni”. È quindi importante che le aziende facciano un scarto di prospettiva e vadano oltre l’ovvio. In Trivioquadrivio aiutiamo le imprese a fare esattamente questo, fin dal 1996. Dunque ci sentiamo di proporre la seguente riflessione.

È giusto e urgente chiedersi che cosa significa pensare in modo ibrido la collocazione spaziale e temporale del lavoro; ancor più prezioso è domandarsi come far sì che “ibrida” sia la forma mentis delle persone, che “ibridi” siano capacità e comportamenti da mettere in campo nel lavoro quotidiano, che “ibridi” siano gli stili di leadership e la governance dell’impresa. Solo in questo modo l’ibrido, si può ben dire, si rende “smart”.

Dario Villa